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Luca Ricolfi “Il follemente corretto – L’inclusione che esclude e la nascita della nuova élite”, La nave di Teseo. Recensione

Quando il Verbo non anima più le parole, sotto i fiumi di parole

si diffonde un silenzio atroce.         Ernst Jünger

Luca Ricolfi, l’autore del volume, è un attento, curioso, preparato osservatore della società italiana. Ci offre ora questo testo, frutto di una rigorosa indagine semantica e sociologica, in cui conia, come già avvenne con il concetto di “società signorile di massa”, una provocatoria quanto corretta nuova espressione: il follemente corretto.

Di che si tratta? È l’uso di una neolingua composta di veri e propri orrori grammaticali, come alcune fantasiose femminilizzazioni (ma non mascolinizzazioni e verrebbe da chiedersi, in nome dell’inclusione e della parità del cosiddetto genere, perché la guardia o la sentinella debbano essere sempre femminili), o orrori tipografici, come la “schwa” (ovvero la e rovesciata che rende illeggibile i testi) e il cui fine sarebbe quello di non far sentire nessuno escluso dal linguaggio.

Il testo è diviso in due parti: nella prima si passano in rassegna alcuni capisaldi del politicamente (e follemente) corretto, nella seconda si avanza un’interpretazione storica dello sviluppo di questo gergo che è diventato un dogmatico quanto irrazionale strumento di sviluppo e consolidamento di una nuova élite “culturale” (dettagliatamente descritta, dai pasdaran della rete alle vestali dei corsi di “formazione” ai soloni della correttezza) auto-posizionatasi all’interno dei giusti, dei buoni.

Se alcuni aspetti possono essere quasi ridicoli (si pensi a quanto riportato sull’Università di Trento che d’ora in poi scriverà tutto al femminile con un rettore maschio trasformato, per via burocratica, in femmina) altri sfiorano la tragedia. Al riguardo Ricolfi cita i corsi di vero e proprio indottrinamento ideologico organizzati all’interno di grandi aziende per un pubblico predeterminato come maschio, bianco e eterosessuale e il caso della Rowling minacciata da ambienti trans per aver criticato il termine “persona con mestruazioni” e aver sostenuto le ragioni della parola “donna” (vista, nella follia dei suoi accusatori, come “divisiva”).

Ciò porta direttamente all’attacco ai diritti delle donne da parte dei trans di origine maschile, alle carriere universitarie stroncate, con relativa migrazione di brillanti menti da istituti statali a scuole private che consentono ancora la libertà di espressione, agli shitstorm mediatici attraverso la diffamazione verso chi non si adegua a un linguaggio fondamentalmente totalitario. Il libro è però interessante perché analizza nel dettaglio i meccanismi sociali che sottostanno allo sviluppo di queste espressioni. Di grande rilievo è vedere non solo il rapporto tra classi sociali medio alte e politicamente corretto, ma anche il rapporto tra questo ed enti, istituzioni, aziende.

Giustamente Ricolfi fa notare che se Lufthansa non saluta più i passeggeri di un volo con “Gentili Signori e Signore” ma solo con “Buongiorno” (per non urtare chi non si sente né maschio né femmina), l’azienda può essere annoverata tra quelle sensibili alle cosiddette tematiche dell’integrazione, acquisendo uno statuto morale positivo, senza spendere un centesimo e senza agire là dove si dovrebbe (puntualità, code agli imbarchi, grandezze delle cappelliere, prezzi ecc.) e che comporterebbe interventi finanziari rilevanti. Un po’ come quelle amministrazioni pubbliche che scrivono ai cittadini incomprensibili lettere infarcite di schwa ma poi non riescono a far funzionare le proprie anagrafi. Il messaggio che resta risulta essere: facciamo male il nostro lavoro ma siamo tra i buoni perché usiamo un linguaggio non divisivo (anche se per la maggioranza incomprensibile).

Si è accennato al rapporto tra classi medio-alte e follemente corretto; questo appare un punto fondamentale perché implica una divisione nell’uso del linguaggio che si riflette sociologicamente con una parte della società che si autonomina migliore guardando dall’alto in basso le masse incapaci di comprendere il giusto, il bello, il vero. Ciò provoca rancori e sentimenti di rivalsa e non è un caso se i ceti popolari hanno via via abbandonato le tradizionali organizzazioni politiche di sinistra che ai diritti collettivi hanno sempre più sostituito i cosiddetti diritti civili; il “partito della ztl” si manifesta anche, forse soprattutto, in questo contesto.

Ovviamente non è tutto. Il linguaggio non solo descrive ma crea la realtà, quindi utilizzare termini non è mai qualcosa di neutrale, anche nel caso del follemente corretto. Dire, ad esempio, che determinati fenomeni di violenza sono ascrivibili a una società “patriarcale” quando il capo del governo è, in varie nazioni tra cui la nostra, una donna significa semplicemente non capire ciò che succede, non comprendere la distanza abissale tra il passato patriarcale e la società multiculturale attuale: si insegue un fantasma ideologico mentre il mondo va in tutt’altra direzione.

Ma in tal modo l’utilizzatore di queste formulette può sentirsi dalla parte del bene riaffermando la propria superiorità su chi non condivide il proprio pre/giudizio. Il libro termina con la speranza che in futuro il follemente corretto imploda sotto le contraddizioni logiche e fattuali che lo inficiano. È una speranza che condividiamo totalmente ma siamo, al riguardo, un po’ meno ottimisti, perché questa neolingua ci appare particolarmente adatta all’attuale fase storica. Una fase in cui ogni forza/potere intermedio viene sbriciolato, il singolo si trova sempre più isolato dagli altri, il narcisismo, con relativo ripiegamento su se stessi, può dispiegarsi in tutta la sua forza e le élite dominanti hanno trovato un altro modo per riaffermare la propria superiorità su ciò che viene sdegnosamente caratterizzato come “la pancia del paese”.

Il “sinistrese” degli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso è scomparso, lasciando poche tracce di sé, ma il follemente corretto (per certi versi una sua evoluzione anche dal punto di vista sociale) ha un grande alleato che ha cambiato tutte le regole del gioco: la rete. E in rete spesso si rifugge dalla riflessione ponderata, per vivere di semplici associazioni d’idee come quelle, ben descritte nel libro, che hanno colpito parole come nero, grasso, nano.

Nicola F. Pomponio

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