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SERVIZIO CIVILE IN KENYA: LA STORIA DI LORENZO TONINELLI

di Francesca Lippi

A condividere la sua emozione nei giorni del Santo Natale è Lorenzo Toninelli, giovane di Borgo San Lorenzo, cittadina in provincia di Firenze, neolaureato in psicologia clinica all’Università di Padova che nell’ottobre 2024, dopo aver svolto un corso di formazione a Roma, è partito con il Servizio Civile all’Estero, destinazione Africa. L’incarico terminerà per lui il 18 agosto 2025. Prima di partire ha rinnovato il passaporto, preparato il visto, che per entrare in Kenya oggi si chiama ETA (Electronic Travel Authorization) e fatto una decina di vaccini.

Queste feste lontane dall’Italia una scelta un po’ dura o no?

“Effettivamente è il primo Natale che passo lontano dalla mia famiglia penso che lo sentirò molto, perché sono stato abituato a fare il pranzo con i miei familiari, a vedere gli amici, perciò credo che accuserò molto questa cosa. Qui non si sente molto l’atmosfera natalizia, perché siamo sempre in spiaggia e ci sono sempre 30° gradi, però sicuramente, sentendo i miei cari e i miei amici che si stanno preparando a questo giorno sono certo che sentirò la lontananza da casa, insomma la nostalgia.”

Ti trovi in Kenya, ma dove di preciso?

“Sono vicino a Mombasa, per l’esattezza a Diani, che in lingua Swahili diventa Ukunda, 100mila abitanti. Diani appartiene alla contea di Kwale”.

Chi ti ha inviato in questa zona?

“Arrivo qui nell’ambito del Servizio Civile Italiano all’Estero, inviato da Amesci, organizzazione italiana con sede a Roma, ma lavoro con un’organizzazione locale che si chiama Vack (Voluntary Action for Change in Kenya). L’associazione opera a Nairobi ma da qualche anno si è messa ad operare anche a Diani, zona molto turistica, dove la presenza di ONG è abbastanza scarsa.”

Quale lavoro svolgi qui in Kenya?

“In questo preciso momento cerchiamo principalmente di costruire le basi di un progetto che possa perdurare negli anni. Il lavoro è principalmente un supporto umanitario alla comunità locale e, nello specifico, stiamo lavorando in questi mesi in un orfanotrofio con bambini e ragazzi, cercando di proporre attività, seminari o tutto quello che necessita in relazione alle esigenze che ci sono. Inoltre aiutiamo un’associazione che si occupa della protezione delle tartarughe marine, con l’organizzazione di eventi o utilizzando i social media. Svolgiamo anche un servizio in un villaggio, tra una comunità di donne, dove insegniamo loro l’inglese, visto che non possono accedere alla scuola e facciamo attività di empowerment per la creazione di un business che possa generare profitto”.

Qual è il momento più difficile e quello più bello che hai vissuto da quando sei arrivato in Kenya, ad ottobre?

“Il momento più difficile magari lo sto vivendo adesso, perché è passata un po’ l’euforia dell’inizio. Adesso si tratta di abituarsi allo stile di vita che c’è qua, al modo di pensare che è molto diverso dal nostro. Non è come quando si è appena arrivati, adesso si comincia proprio a vivere qui, quindi dobbiamo scendere a molti compromessi e individuare delle attività per le persone del posto che possano essere efficaci. Perciò il momento più difficile consiste nel trovare le attività che possano interessare le persone, ho proposto delle attività che non hanno ottenuto il coinvolgimento sperato e non venivano capite, quindi ho dovuto ripensare tutto da capo. Questa è sicuramente una cosa nella quale, in questo periodo, mi sto interfacciando molto, si tratta davvero ogni volta di reinventarsi e capire cosa può funzionare in questo progetto. Invece, il momento più bello, è stato vedere come ogni giorno, malgrado ti capiti di avere anche attimi di sconforto perché le cose non vanno come si vorrebbe, che le persone cominciano ad affezionarsi a te. Vedere quando entri in orfanotrofio o nella comunità che i bambini e le donne ti corrono incontro, per me è una cosa bellissima. Una scena che mi ricordo e mi ha colpito molto, è stata quando lasciavamo la comunità con il tuk tuk (mezzo di trasporto a tre ruote) e i bambini e le ragazze con i quali facciamo attività ci sono corsi dietro per salutarci accompagnati dalla musica, perché ci saremmo rivisti dopo una settimana.”

Tu hai parlato di una mentalità completamente diversa dalla nostra, in cosa si differenzia rispetto al nostro modo di vivere?

“Il discorso è un po’ complesso. Abbiamo davanti una mentalità che a me personalmente ha insegnato molto, perché da una parte è un modo di vivere molto tranquillo, senza grandi progetti a lungo termine, si vive molto alla giornata e da una parte è bella perché ti fa pensare a fermarti, goderti il momento che stai vivendo con calma, e questo è positivo. Quando però si va a lavorare diventa un po’ più complesso perché se vuoi lavorare in modo un po’ più articolato, se vogliamo fare, ad esempio, lezioni di inglese può succedere a volte, come è successo, che siamo arrivati al villaggio e non c’era nessuno, perché erano andati tutti a lavorare, perché quel giorno c’era la possibilità di guadagnare a testa 1 o 2 euro e allora l’attività che dovevamo proporre è sfumata.  Le persone qui non si proiettano nel futuro, vivono davvero “carpe diem”. Non si investe su se stessi a lungo termine, se c’è un lavoro da fare al momento per guadagnare qualcosa si fa, del resto è tipico del contesto in cui queste persone vivono. Per un operatore, però, che vuol fare questo tipo di attività diventa una sfida perché in contrasto con quello che propone. Infatti non c’è continuità in quello che facciamo, perché le persone non sempre partecipano, in quanto noi non le paghiamo.” 

Ma questo lavoro come arriva?

“E’ tutto incentrato sul nostro responsabile che si chiama Simon, lui è un ragazzo di Nairobi che ha trascorso la sua infanzia in uno slum, una baraccopoli dal quale è riuscito ad uscire, ha conosciuto l’associazione e ne è diventato operatore. Simon ha 25 anni come me, è molto bravo e per questo gli hanno affidato il progetto qui a Diani. In 5 anni Simon ha costruito dei rapporti di fiducia all’orfanotrofio e con le persone della comunità, perciò quando siamo arrivati è stato lui ad introdurci gradualmente nell’ambiente, altrimenti non saremmo riusciti a proporre niente senza il suo intervento pregresso. Simon crede nel voler supportare la propria comunità a crescere, nell’ottica che questo cambiamento, partendo dal piccolo, si possa estendere di riflesso in un cambiamento positivo in tutto il Kenya nel tempo. Per questo in tutti i luoghi in cui andiamo, il lavoro che proponiamo si basa su attività di empowerment per i giovani, per le donne e per tutti coloro che credono in un possibile futuro migliore per il Kenya. Queste attività vengono proposte come attività ludiche e ricreative e non come lezioni frontali, ma sono comunque funzionali a stimolare dei ragionamenti e una discussione nei ragazzi che ne prendono parte”.

Quanti sono i bambini nell’orfanotrofio?

“L’orfanotrofio ospita non più di 50 bambini. E’ un orfanotrofio molto particolare. E’ stato costruito dai tedeschi una quindicina di anni fa come ‘orfanotrofio d’eccellenza”, pensato affinché non ospitasse troppe persone. E’ molto grande, ha un campo da calcio, un campo da basket, un grandissimo parco, casette singole per i ragazzi più grandi, una casa comune per i più piccoli. E questa di ospitare pochi bambini qui è una rarità, perché in genere ce ne sono 200/300 in una stanza.”

Come si chiama l’orfanotrofio e chi segue i bambini?

“L’orfanotrofio si chiama Upendo che significa Amore in lingua Swahili. All’interno dell’orfanotrofio ci sono tre social workers, cioè operatori sociali, c’è una psicologa che ciclicamente va a visitarli, e la direttrice.”

Tu, in qualità di psicologo clinico riesci a lavorare nel tuo ruolo?

“Con la mia figura professionale di psicologo dovrei cominciare da gennaio, in affiancamento alla psicologa presente al centro, ma è una situazione in divenire. In generale si può lavorare con questi ragazzi, ma non come lavoreremmo in Europa. Non si possono proporre interventi psicologici in linea con quelli europei, ad esempio delle attività sulle emozioni, perché troveremmo una chiusura molto ampia. E’ molto difficile per i ragazzi qui aprirsi, comunicare, confrontarsi, purtroppo sono stati abituati ad un sistema scolastico rigido, di stampo colonialista, quindi fin da piccoli sono stati abituati a rispondere all’insegnante in modo pedissequo, a fare silenzio e a subire l’autorità. Anche le social workers sono persone molto rigide, molto severe, che impongono molte regole. Faccio un esempio: all’entrata dell’orfanotrofio c’è un cartello con su scritto in inglese che la parola silenzio ha lo stesso numero di lettere della parola ascolto, quindi il messaggio è: devi tacere e ubbidirmi. Crescendo in questo modo diventa difficile esprimere liberamente un proprio pensiero o una propria emozione.”

Tu a Diani come vivi, come vi organizzate per i pasti?

“Il servizio civile copre i costi di vitto e alloggio poi l’organizzazione decide. Nel nostro caso ci viene dato un rimborso mensile per coprire le spese del vitto. Noi quindi facciamo la spesa da soli, un mio collega che condivide il mio progetto, siamo in tre a farlo, è bravo a cucinare e quindi i pasti li prepara lui. L’appartamento, che peraltro è molto grande, lo condivido con i miei colleghi.”

Prima di salutarci un’ultima domanda: tu consiglieresti ad un giovane come te di vivere un’esperienza analoga alla tua?

“Io invito tutti i giovani italiani a buttarsi in questo tipo di esperienza, perché è un’esperienza che vale, assolutamente. Va fatta entro e non oltre i 30 anni, e la puoi fare una volta nella vita. E’ un’occasione unica! Sei tutelato dallo Stato in moltissimi aspetti, c’è una forma di tutela che altre situazioni di volontariato non potrebbero darti, qua sei coperto sui vaccini, sui viaggi, hai uno stipendio fisso, un’assicurazione, vitto e alloggio pagati. Inoltre vivi un’esperienza di volontariato vera, piena, in qualsiasi parte del mondo: dal Sud America, all’Asia e appunto all’Africa, paesi dove vivi non da turista, ma da persona che vivrà la cultura di un luogo, lavorerà a livello umanitario con delle associazioni che sono state selezionate con attenzione dal Governo stesso, quindi è un’esperienza che vale la pena fare e che consiglio a tutti, sicuramente.”

La VACK è una piccola associazione, che svolge un bellissimo lavoro in Kenya, ma fa fatica a reperire i fondi. Se qualcuno leggendo questo servizio volesse sostenerla può farlo, anche una piccola donazione può fare la differenza per tutte le persone che l’associazione VACK aiuta. Qui il sito associativo: https://vakjitolee.org/ e le coordinate bancarie: Nome: Volunteer Action for Change Kenya Indirizzo: 1376-00515 Buruburu – Nairobi Kenya – Nome della Banca: Cooperative Bank of Kenya – Codice IBAN: 22100201952200 – Codice SWIFT: KCOOKENA.

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